Sascia, il gatto della cooperativa Lapemaia si ferma
davanti alla porta del piccolo negozio di “roba
usata e curiosità” gestita dalla cooperativa sociale
integrata che ha lo stesso nome. Una giovane straniera
lo segue, lo chiama, si accorge di noi e chiede
gentilmente se può aiutarci in qualche modo.
Lei poi avverte Emma che siamo arrivati.
E’ una
curiosa staffetta per arrivare al posto più fantasioso
del mondo: un gatto nero spruzzato di rame,
una ragazza eppoi Emma Serafini e la sua carrozzina.
Sembrano tutti personaggi di una storia inventata
che inghiotte il visitatore senza che nemmeno
quello se n’accorga. Emma gestisce questo pezzo
di attività della cooperativa, il negozio appunto,
vendendo – a prezzi accessibili – gli oggetti più vari.
La “merce” la sceglie tra ciò di cui la gente si libera
perché vecchia e perché, forse, l’immaginazione
di molti non ce la fa a suggerire un altro utilizzo.
Perché il riciclo? “Perché con la roba che gli
altri buttano ci si può vivere, dice Emma e, secondo
me è uno spreco buttare via la roba.
In questo
settore io e mio marito abbiamo iniziato a lavorarci
già da quando stavamo nella comunità di Capodarco.
Ne abbiamo vendute tante di tazzine scompagnate,
di piatti e le altre cose che vedi. I primi
tempi io le buttavo poi non più: la gente compra
un po’ di tutto. I pupazzi da collezione, i piatti azzurri,
gli asciugamani di lino. Ci sono libri di 108
anni fa, ma quelli li tengo da un’altra parte: aspetto
le persone che sono più interessate a questo
genere di cose.” Come fa a sapere quanto valgono
gli oggetti che poi mette in vendita? ”L’esperienza
me la sono fatta guardando le persone
che venivano a comprare: alcuni
pensavano che siccome ero
handicappata mi potevano fregare.
Poi ho imparato e adesso sono più
brava.” Negli scaffali del negozio di
Emma quelle stesse cose sembrano
animate. Ciascuna racconta un
pezzo di quotidianità ormai andata,
la vita di tanti di noi che è ormai
nei ricordi o nei racconti tramandati.
Ci sono le fasce che si usavano
per i neonati, le lenzuola di flanella
di quando le case non erano riscaldate,
vestiti usati di ogni genere,
colore e taglia, macchinette per il
caffè di ogni modello, giocattoli
scampati a infanzie di diversa felicità,
tazze e tazzine di materiale vario
e dai decori più diversi, manichini
da negozio, mobili, piatti. Appeso,
in alto, un vestito da sposa
bianco e vaporosissimo. Sembra di
essere precipitati sul set di un film
in bianco e nero dove la prossima
azione verrà girata a colori, come
quando si vuole distinguere il passato
dal presente. “No, non ho iniziato
da questa esperienza. Mi piace
questo lavoro, come mi piaceva
quello che facevo prima: ho fatto il
corso di elettronica e sarei in grado
di aggiustare una radio (se però c’è
lo schema). Ma la cosa che a me
piace di più è il taglio e cucito, sarà
perché me lo ha insegnato mia madre
che trasformava vestiti e magari
con una camicia ci faceva le mutande.
Siccome io avevo problemi nel
camminare, mi faceva rammendare
i calzini, tantissimi calzini, tanto che
oggi se ne vedo uno con un buco
grande come un chicco di farina lo
butto via: non ne voglio sapere.” Ci
avviamo verso la grande casa dove
Emma vive con altre persone lascia
che le spingano la carrozzina mentre
racconta altri pezzi della sua vita.
“Io ho studiato taglio e cucito.
Ero già sposata e vivevo già a Roma.
Un giorno la professoressa mi
disse di fare una linea obliqua, io
non sapevo cosa volesse dire “obliqua”.
Pensai “e adesso cosa mi invento?”
c’erano tutte le altre che
avevano studiato, addirittura le
professoresse. Io non volevo fare
una figuraccia. Siccome a me ogni
tanto fa male la mano sinistra che è
quella buona, dissi alla maestra
“Bianca mi fa male la mano, me la
fai tu la linea obliqua? Dopo mi sono
detta “ma tu guarda, cambia il
nome ma io questo lo so fare: e così
ho imparato tante cose guardando
gli altri. Il primo anno di corso dovevo
avere l’attestato, siccome si
doveva pagare, e io i soldi non ce li
avevo, non l’ho voluto. Il secondo
anno ho preso il diploma per sarta,
il terzo quello da modellista, il
quarto da maestra di taglio. Poi ho
fatto scuola ad altre persone che
agli esami hanno avuto le votazioni
più alte. Soddisfazione? Insomma…
c’è stata una grande discussione
perché le mie allieve erano state le
migliori e questo non ha fatto piacere
a qualcuno. L’anno successivo
la capo della scuola mi ha detto che
il corso di taglio e cucito doveva essere
pubblicizzato con dei volantini.